20 ottobre 2005

lettera ai colleghi dei teatri lirici

Siamo un gruppo di lavoratori del Teatro Regio di Torino, abbiamo da poco appreso che nella finanziaria attualmente in discussione al Parlamento è previsto per il FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) un ulteriore taglio dello stanziamento economico.

Tale provvedimento riguarda anche e soprattutto le attività teatrali e musicali di ogni genere e di ogni ordine di grandezza, e significherebbe, così come è attualmente concepito, totale ed immediata interruzione delle produzioni per le realtà più piccole, e grave precarizzazione, ancorché non graduale dismissione, delle realtà più grandi: le 14 Fondazioni Lirico-Sinfoniche italiane.

In questo vasto settore lavorativo non operano soltanto i quasi 10.000 dipendenti delle suddette fondazioni, ma anche aziende di forniture, laboratori di creazione, ditte appaltatrici di servizi, e tutto quello che viene classificato sotto il nome di “indotto”; calcolando anche i settori dello spettacolo al di fuori della lirica il numero dei lavoratori sale oltre i 200.000. Considerando anche i famigliari il numero delle persone coinvolte potrebbe superare il milione.

Quali saranno le conseguenze pratiche?

Per i lavoratori la riduzione della programmazione, dello stipendio, del personale o la totale scomparsa del mercato professionale, per gli spettatori lo svilimento del livello dei pochi sporadici spettacoli e delle esecuzioni, per tutti i cittadini la parziale chiusura e quindi il decadimento dei teatri più belli e famosi del mondo, l’abbassamento dell’interesse culturale-turistico delle città...

In un’espressione unica: l’abbassamento della qualità della vita italiana.

Dando per assodata la gravità dell’impatto economico che ciò avrebbe sulle vite di una così numerosa area occupazionale, vorremmo mettere in rilievo anche la gravità dell’impatto culturale, morale e di conseguenza anche sociale ed economico che ciò avrebbe sull’intera società italiana.

Quale sarà la sorte per l’immenso patrimonio artistico che i teatri, insieme ai musei, alle gallerie, alle biblioteche, alle soprintendenze, contribuiscono a tenere vivo?

E’ pensabile che proprio l’Italia che ha dato i natali ai più grandi compositori (così come architetti, pittori, scultori, scrittori, poeti) degli ultimi 1000 anni rinunci alla grande musica nell’esecuzione dal vivo? Quali sarebbero gli effetti sulla credibilità, sul prestigio, quindi sulle “quotazioni” del nostro paese all’estero? Quali le conseguenze sul turismo nel “bel paese”, con ulteriori strascichi su un’altra vasta area occupazionale? Cosa, dopo aver rinunciato alla musica e al teatro, impedirebbe un irrefrenabile effetto-domino di totale disinteresse verso la salvaguardia del patrimonio, con conseguente appiattimento umano ed irreversibile cammino all’indietro di un popolo che da 2000 anni esporta l’arte in tutto il mondo?

Dobbiamo pensare e credere che la cultura vale come la scuola e la salute: in un paese senza cultura non possono ben funzionare gli altri settori.

Se una cosa come l’opera (musicale, artistica o letteraria) sopravvive attraverso i secoli è perché ha un grande valore sociale al pari di tante altre discipline come la scienza, la storia e la ricerca.

Ma, accantonando per un attimo le argomentazioni morali, educative, didattiche ed estetiche, bisogna pur affrontare anche quelle “contabili”.

I teatri d’opera purtroppo costano più di quello che producono.

Così come i musei, le scuole, ma anche la politica e le guerre...

Spesso si sentono sussurrare, tra i non addetti, notizie sui misteriosi redditi milionari dei lavativi dipendenti dei teatri (!).

Fermo restando che i componenti delle masse artistiche hanno una qualifica altamente particolare e pertanto non facilmente paragonabile ad altre tipologie come quantificazione della mole di lavoro, a fronte di un orario di lavoro giornaliero atipico il nostro introito mensile non è di certo da potersi considerare di alta fascia, come ben sanno coloro, tra noi, che hanno una famiglia numerosa e monoreddito.

Ovviamente esistono nei teatri, come in tutte le aziende, cariche dirigenziali con redditi alti, ma il grosso problema è, a nostro avviso, la “moralizzazione” della gestione economica.
Il dipendente è in parte impotente di fronte ai complicati meccanismi politici ed economici che regolano tale gestione, spesso però vede le cose e tace.

Non dovremmo più tacere.

Non vogliamo muovere facili accuse, ma potremmo permetterci di suggerire.

Alla fine di una produzione operistica che dura un mese, per esempio, molti cantanti solisti, direttori d’orchestra e registi hanno totalizzato un cachet di valore pari ad un lussuoso appartamento, mentre un dipendente del teatro riscatta a fatica, dopo 30 anni di mutuo, il valore di un normale alloggio...Molto spesso si concedono carta bianca e budget illimitato a registi con esigenze da cinema hollywoodiano, come se il pubblico finanziamento fosse un grande bancomat da cui prelevare a seconda del capriccio momentaneo.

Sarebbero molti gli esempi da fare degli infiniti piccoli e grandi sprechi che tutti i giorni sono sotto gli occhi dei lavoratori.

Proprio perché foriera di moralità, l’arte va moralizzata, e anche il più grande degli artisti deve subire un tetto economico con supervisori e revisori di conti. E se queste iniziative fossero attuate all’unanimità da tutti i teatri non potrebbero scattare sui cachet e sulle percentuali gli inevitabili ricatti delle agenzie di impresariato.

Anche il contributo dello Stato risulterebbe molto più produttivo e forse anche meno gravoso se si promulgassero, come all’estero, leggi sulle agevolazioni fiscali agli sponsor privati.

Vi invitiamo pertanto a fare pressione sulle rispettive sovrintendenze affinché attuino e ottengano queste ed altre riforme, e a mobilitarvi rapidamente nel chiedere una migliore utilizzazione delle risorse ed una più illuminata visione delle priorità, per tentare di tutelare il nostro futuro e quello della cultura italiana.


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