27 novembre 2005

da "Il Giornale della Musica"

Far la festa alla cultura
di Giorgio van Straten
In Fiesta, il romanzo di Hemingway, un personaggio chiede a un altro come abbia fatto a fallire. E quello risponde: «In due modi. Prima poco a poco e poi di colpo». Questa fulminante battuta può essere riproposta negli stessi identici termini anche alla domanda come abbia fatto il Governo Berlusconi a mettere in ginocchio la cultura italiana. Prima con un progressivo strangolamento (il Fus che aveva toccato il suo culmine nel 2000 con 516 milioni di euro è stato ridotto progressivamente ai 464 del 2004: cioè 100 miliardi delle vecchie lire in meno in cifra assoluta e molto di più se si tiene conto dell’inflazione reale), poi, oggi, “di colpo” per rimanere a Hemingway, tagliando tutti insieme 164 milioni di euro. Si dice che ognuno deve fare sacrifici, ma in realtà si ignora che nel settore culturale i sacrifici vengono fatti da molti anni a questa parte. Si dice che per sopravvivere dobbiamo riformarci, il che è anche vero, salvo che nessuno ha affrontato seriamente il tema di come riformare e con che risorse (le riforme di solito producono risparmi dopo che sono state avviate grazie a investimenti). Si dice che in particolare le fondazioni liriche devono “dimagrire”, ma nessuno dà loro strumenti per ridurre il costo fisso del personale in modo non traumatico (a oggi, tanto per dirne una, non è prevista nessuna forma di ammortizzatori sociali nel settore della cultura). No, il fatto è un altro: il Ministero per i beni e le attività culturali fa spot radiofonici per chiedere ai cittadini di contribuire al sostegno della cultura, ignorando o fingendo di ignorare che la base per chiedere a qualcun altro di contribuire a un progetto è dimostrargli che in primo luogo ci crede chi avanza la richiesta. Altrimenti come si fa a sostenere che è bella e buona una cosa che tu stesso decidi di abbandonare alla pubblica carità? Perché poi di questo si tratta: dietro tante inutili parole rimane ferma l’idea che la cultura è un di più, che la si può sostenere nei periodi di abbondanza e non quando c’è da ridurre i deficit. E questo è sbagliato non solo per l’identità di una nazione, per il significato sociale dell’occupazione o per la qualità della vita dei cittadini; no, è sbagliato anche, e oggi vorrei dire soprattutto, perché la cultura può essere un volano di rilancio e di produzione di ricchezza che il nostro Paese ha in mano. Il caso di Roma, che ha invece compiuto una scelta proprio in questo senso, mi pare la prova concreta di questo ragionamento: mentre i turisti calano in Italia, a Roma sono aumentati, e per ogni euro investito in cultura ne sono tornati indietro quattro o cinque. Ma la gran parte del mondo politico italiano (anche del centrosinistra, sia pure in misura minore) pare non voler sentire da questo orecchio, e sottovaluta o addirittura ignora quanto possa servire la cultura a rilanciare l’Italia. Mi auguro perciò che in un soprassalto di consapevolezza il Parlamento riporti il Fus almeno ai livelli del 2005. Ma quello che si deve chiedere a chi si candida a governare il Paese con le prossime elezioni politiche è di inserire la cultura come elemento strategico in un programma di cambiamento e di rilancio del sistema Italia. Non vogliamo elemosine, vogliamo essere protagonisti di un nuovo inizio per questo disastrato Paese.


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